Il cuore della trasformazione digitale sul lavoro è fatto di dati. Ogni volta che un dipendente timbra il cartellino con un badge intelligente, indossa un dispositivo wearable o utilizza un software aziendale, lascia tracce che l’intelligenza artificiale può analizzare. In teoria, queste informazioni servono a migliorare l’organizzazione, a garantire più sicurezza, a distribuire meglio i carichi. Ma la linea tra controllo legittimo e sorveglianza invasiva è sottilissima, e proprio qui si gioca una partita cruciale per i diritti dei lavoratori.
Negli ultimi anni si è diffusa la raccolta di dati biometrici: impronte digitali, riconoscimento facciale, registrazione della voce, persino parametri fisiologici come battito cardiaco o postura. Alcune aziende li utilizzano per garantire accessi sicuri a zone sensibili, altre per monitorare la salute e la fatica dei dipendenti. Se da un lato questo può contribuire alla sicurezza – pensiamo a un braccialetto che segnala vibrazioni pericolose o livelli eccessivi di calore – dall’altro introduce il rischio di una sorveglianza costante che riduce la libertà individuale.
Il GDPR e lo stesso Statuto dei Lavoratori in Italia stabiliscono limiti chiari: il controllo a distanza dei lavoratori è ammesso solo se proporzionato e giustificato da esigenze reali di sicurezza o produttività. Ma la velocità con cui si diffondono nuove tecnologie spesso supera la capacità delle norme di regolamentare. In assenza di trasparenza, i lavoratori possono percepire queste pratiche come una violazione della loro dignità, con effetti negativi sul clima aziendale e sul benessere psicologico.
Un altro tema è quello del rischio di discriminazione algoritmica. Se i dati raccolti vengono usati per valutare le performance, chi garantisce che l’IA non favorisca alcuni profili a scapito di altri? Se un algoritmo associa determinati tempi di reazione a “maggiore efficienza”, potrebbe penalizzare un lavoratore più anziano o semplicemente stanco, senza tener conto delle sue competenze reali. Qui il problema non è solo etico, ma anche giuridico: un sistema che discrimina può esporre l’azienda a contenziosi legali e sanzioni pesanti.
La tutela passa per alcuni principi cardine: trasparenza, proporzionalità e consenso informato. I lavoratori devono sapere quali dati vengono raccolti, con quale scopo e chi vi avrà accesso. I sistemi devono essere progettati per raccogliere il minimo indispensabile, evitando di trasformare ogni gesto in un dato archiviato. E, soprattutto, deve esistere un meccanismo di controllo umano che garantisca la revisione delle decisioni automatizzate.
La tecnologia può e deve avere un ruolo nella protezione dei lavoratori, ma non può sostituirsi al rispetto dei loro diritti fondamentali. La sfida per le imprese sarà quindi quella di usare i dati come strumento di tutela, non di dominio. Solo così l’AI potrà diventare un alleato e non un nuovo fattore di conflitto.